Silvio Wolf. Le Due Porte

Gigliola Foschi (review)

in Zoom Magazine N. 5-6, for the solo exhibition "Le Due Porte", Galleria Fotografia Italiana, Milan 2003

Il tempo e la fotografia. Scrive Roland Barthes: “Nella Fotografia non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. E siccome tale costrizione non esiste che per essa, la si deve considerare, per riduzione, come l’essenza stessa, come il noema della Fotografia” (R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, 1980, pag. 78). Molto si è discusso attorno al problema del tempo insito nella Fotografia, ma queste riflessioni di Barthes sono spesso apparse, quasi ad ogni critico, come un punto imprescindibile da cui partire. Ora però Silvio Wolf – nel presentare il suo nuovo lavoro che sarà esposto presso la galleria Fotografia Italiana di Milano – quasi a voler contraddire tale “noema della Fotografia”, dichiara con sicurezza: “La mostra è costituita da 12 opere fotografiche: sono immagini senza tempo di luoghi eterni.”

In effetti le sue opere si presentano come immagini che non rimandano al passato, prive come sono di dimensione narrativa, di hic et nunc. Eppure non sono state integralmente costruite con l’aiuto del computer: tutto all’opposto, si tratta di “vere” fotografie nate dall’esperienza. “Sono fotografie di luoghi reali, incontrati e vissuti dall’artista tra l’Occidente e l’Oriente, tra la città e il deserto, tra opposte concezioni di spazio, di vuoto, di presenza e assenza” scrive lo stesso autore. In che senso allora possono le sue immagini essere “senza tempo”, se sono nate nel tempo reale dell’esperienza? Per capire come il lavoro di quest’autore riesca, senza tradire la fotografia ma anzi usandola nel modo più ortodosso possibile, ad aprirla a una nuova, inaspettata e al contempo arcaica dimensione, conviene riflettere sulla mostra nel suo complesso.

Una mostra dove ogni stanza della galleria diviene la stazione di un percorso simbolico, rituale ma non religioso, segnato dalle opere esposte che s’impongono non tanto per quel che rappresentano, ma per quel che evocano. Un percorso che non termina, che non avvicina all’Assoluto o a nessun dio, ma che non a caso inizia con la sala chiamata Il corpo, così come dal corpo dominato dalle passioni e dai desideri, comincia il percorso iniziatico di quel grande mandala di pietra che è il tempio giavanese di Borobudur. Nel lavoro di Silvio Wolf il corpo si presenta però enigmaticamente e modernamente come una troneggiante grattacielo che riflette la luce: una luce violenta, opposta alla luce generativa e spirituale di cui parla la tradizione dell’Occidente. La luce di quest’edificio, infatti, non illumina, abbaglia; non genera, cancella. Cancella il corpo stesso dell’edificio, nega la nostra possibilità di vedere.

Nella seconda sala – L’Altrove – campeggiano le immagini di un Grande Myhrab, di una Scacchiera e di un Labirinto. Di nuovo ci troviamo quindi di fronte a immagini-emblema che non valgono tanto per quel che documentano, che indicano, ma per la loro ambivalenza simbolica, per la loro capacità di significare se stesse ma anche altro, aprendosi a una fluttuazione di significati. La scacchiera, con i suoi quadrati bianchi e neri, non è forse a sua volta un mandala, un’immagine del mondo nel suo dualismo naturale, uno specchio dei cicli celesti? E il Grande Myhrab – la nicchia che indica la direzione della Mecca nelle moschee – non è forse un’assenza, capace però di evocare con forza un luogo sacro, lontano e non visibile? “Il Myhrab è il frutto d’una doppia percezione e d’una doppia negazione, perché non è né un luogo né una cosa” – scrive ancora Silvio Wolf – “è il luogo della virtualità, un vuoto che indica un altrove”.

Antianedottiche, essenziali, le immagini di quest’autore si aprono al futuro, al possibile e finiscono per suggerire più una sacralità senza tempo che un passato preciso. A un mondo inflazionato di immagini urlate, troppo visibili, trasparenti, le sue opere contrappongono il silenzio dell’evidenza sconosciuta delle cose, un’assenza capace di divenire intensità. Un silenzio ottenuto strappando gli oggetti al contesto rumoroso del mondo reale (ma non dovrebbe proprio questa essere una caratteristica della fotografia?), rinunciando a ogni fuga narrativa, a ogni proposito di interpretazione, di decifrazione, per arrivare là dove le cose dichiarano semplicemente la propria irriducibile alterità, la propria presenza enigmatica. Un’operazione di sottrazione di ogni elemento anedottico che si rende ancor più evidente nella terza sala – La Soglia – dove campeggiano immagini di lucernari trasformati in immateriali soglie luminose, immerse nel nero fotografico. Immagini che ci ricordano come l’abisso delle tenebre sia vasto quanto il dominio della luce; infatti, “soltanto immergendosi nella tenebra si può sperare di raggiungere una conoscenza della più vera luce, distinta da quella che ci circonda durante il dì” (Elémire Zolla, Lo stupore infantile, Adelphi, 1994, pag. 52).

Un’oscurità connessa alla luce stessa che riappare anche nell’ultima stanza – Il Passaggio – dove un arco islamico e una porta sono congiunti e divisi dal buio profondo di un vano nero; e dove due grotte scure fanno baluginare sul fondo, in lontananza, una luce che non sconfigge le tenebre ma sembra proseguirne il cammino. Simili al labirinto – dove il tempo appare sospeso in un tempo senza tempo e i sentieri portano ad errare verso un centro agognato e al contempo sconosciuto – le immagini di Wolf non ci portano alla meta, ma ci guidano attraverso soglie luminose, ci conducono in un misterioso avvicinamento, ci invitano a compiere una silenziosa ricerca dentro noi stessi. Come nel film Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij la guida accompagna i viandanti verso la “zona” ma poi si ferma nel momento dell’approssimarsi affinché ognuno trovi e cerchi la propria zona, così le immagini di Silvio Wolf ci lasciano nel punto sospeso del Passaggio. La sua però non è solo una ricerca che riflette sulla forza dei simboli, sulla sacralità insita nell’arte stessa, in antitesi con il proliferare delle immagini “vuote” dei mass media. Infatti, tutto il suo lavoro, giocato com’è tra luce, assenza di luce ed oscurità, si rivela anche una riflessione sulla fotografia stessa. Una luce-fotografia che – sembra volerci dire il lavoro di Wolf – può trasformarsi in abbagliamento, in astrazione (come nel caso dell’immagine Lightscape nella stanza Il Corpo ) là dove perde la sua relazione con la gravità e l’opacità dei corpi, con le ombre e il fondo inaccessibile del reale.