Pietre di Carta
in Area N.45, Katà, Milan 1989
Attraverso un procedimento fotografico e installativo molto complesso Silvio Wolf a Civitella d’Agliano ha riattualizzato il monumento sfuggendo per altro alle funzioni che la tradizione e il senso comune al monumento attribuiscono. L’opera di Wolf non celebra infatti un’autorità, se mai un’autorevolezza, quella di un luogo culturale di cui nella città sono rimaste poche tracce. Neanche pretende di cogliere aspetti di una cultura autoctona, popolare, “bassa”, di cui non potrebbe che inscenare una non meno discutibile celebrazione. Collega invece la città, la comunità, all’ambiente naturale che la ospita. Con un duplice intervento negli spazi pubblici di Civitella insomma l’artista, con un atteggiamento totalmente privo di presunzione, amplifica la possibile lettura antropologica del luogo dove si trova ad operare. Così, il monumento non sarà neppure l’auto-celebrazione dell’artista, ma si legherà ad una funzione di stimolo nei confronti della comunità, stimolo a scavare nella memoria collettiva. Interamente giocato sulla possibilità “salvifica” della memoria è l’installazione che Wolf, da fotografo ha progettato per la “piazza” di Sant’Antonio insieme ad uno scultore, Angelo Casciello, e ad una pittrice, Annamaria Santolini. La “piazza” è in realtà lo spazio vuoto rimasto dopo la demolizione della chiesa di Sant’Antonio e di una casa attigua. Gli artisti si occupano per l’appunto di questo vuoto creatosi nel cuore di Civitella, ne sottolineano la realtà di frattura e di beanza. Casciello lo occupa con una struttura fatta di vuoti, lineare e leggera; Santolini delinea forme pittoriche su una parete dove restano visibili strutture della vita domestica. Wolf interviene con i suoi riporti fotografici su ciò che resta dell’abside della chiesa abbattuta e li pone in relazione con la parete che, con l’abbattimento della casa, ora sta loro alle spalle. L’intervento però non inizia da qui, inizia da un’altra chiesa, a Bolsena, nella quale l’artista ricerca spunti iconografici da annettere, da spostare in Sant’Antonio. Questi spunti, come tracce mnestiche “altre”, inserite nel vuoto di Civitella non funzionano solo come memoria di un luogo storico ma anche come segno di un luogo tipico, il luogo del culto. Quest’ultimo rimanda ovviamente al mito, così l’artista riporta alla luce, insieme alla storia del luogo, la sua dimensione mitica e dunque accentua la dimensione antropologica che anima l’installazione. Ricrea inoltre, con la virtualità degli indici iconici, un ambiente immaginario designato attraverso la nominazione delle funzioni architettoniche della parete e del portale. La loro dislocazione è motivata tuttavia da questioni strutturali: i particolari di un’epigrafe e di un portale fotografati a Bolsena vengono applicati su quelle porzioni di superficie reintonacate a causa dell’eccessivo degrado, così le immagini risultano intagliate irregolarmente, enfatizzando la loro parvenza di frammenti precari preservati a stento da un processo di logoramento. Il secondo intervento di Wolf riguarda invece la Porta Vecchia di Civitella. Luogo di passaggio e di differenziazione fra un esterno e un interno, la porta viene prescelta proprio per questa sua funzione primaria e simbolica. L’immagine che l’artista vi applica, letteralmente, facendo combaciare le carte fotografiche su ogni blocco di tufo, appartiene al paesaggio che circonda la città, è un suo “tratto” distintivo (i calanchi). L’immagine conformata secondo la struttura architettonica, è resa in un nitido bianco e nero ma la frammentazione cui è sottoposta e il suo potente ingrandimento la rendono difficilmente riconoscibile. Così il lavoro resta sospeso fra questo approccio simbolico e il puro gioco visivo, dove il bianco e il nero assumono valore di assoluti, funzioni di un linguaggio astratto e dialettica di luce e non-luce. L’interazione in cui l’opera si inserisce è quella di un segno nuovo che viene accolto, senza perturbazioni, nel seno di un “contesto” fortemente significante.
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