Il Convivio delle Parole
in "Less. Strategie alternative dell'abitare", exhibition catalogue (curated by Gaby Scardi), PAC, Milan 2006
Il marciapiede che segue le mura del PAC e conduce verso piazza Cavour: uno dei tanti luoghi di passaggio che in città si attraversano di fretta, immersi nei propri pensieri, senza neppure vedere i volti di quanti incrociano il nostro percorso. Ma ecco che, grazie all’installazione sonora di Silvio Wolf, la solitudine del passante viene spezzata dalle parole inaspettate di una comunità immateriale, nascosta alla vista. Quasi a ogni passo si odono nuove voci narranti e pacate, come quelle di chi sta raccontando la sua vita a un ascoltatore attento e partecipe. Intrasentiamo qua e là qualche parola riconoscibile: “Milano”, “lavoro”, “Italia”… Ma l’estraneità di tutte queste lingue ci impedisce di comprendere quanto i diversi parlanti ci stiano dicendo. Identifichiamo a volte i suoni di una lingua abbastanza familiare, ci interroghiamo sull’identità di altre, del tutto oscure e misteriose. Ma più ascoltiamo questa profusione di frasi, e più ci accorgiamo che non importa tanto distinguere ciò che gli invisibili parlanti vanno dicendo. Lungi dal risultare perturbanti o respingenti, tutti questi discorsi incomprensibili finiscono per esercitare su di noi una piacevole sensazione di avvolgimento, di accoglimento. Viene come naturale fermare i nostri passi, rimanere incuriositi in ascolto, lasciarsi inondare dagli accenti di questi suoni ignoti, quasi fossero una musica amichevole.
Se nella realtà quotidiana “gli altri” – gli immigrati provenienti dai tanti Paesi del mondo – ci appaiono spesso come presenze estranee e distanti, oppure fastidiose e invadenti, qui invece la loro voce risuona con un tono affabulante e vagamente incantato che cattura, che invita all’ascolto. D’improvviso abbiamo l’impressione di trovarci nel cuore di una variegata e ospitale comunità che, con pacatezza e affabilità, ci dona generosamente le sue storie, i suoi racconti, le sue esperienze. Non importa se non capiamo quanto i singoli parlanti ci vanno dicendo, perché avvertiamo innanzitutto il calore della voce di questi “interlocutori” invisibili, simili a presenze assenti. Così, grazie alla grana amabile della loro voce, da stranieri estranei che erano, si rivelano ora per noi come persone vicine, come soggetti prossimi alla nostra stessa vita.
Evitando un esito di pura contemplazione, l’opera di Silvio Wolf agisce dunque dentro la città per offrirsi come una forma inedita di convivenza che genera nuove possibilità relazionali ed esperienziali. Quasi fossero un dono, queste voci morbide e pacate che invitano alla sosta, a un ascolto paziente e protratto nel tempo, riescono a trasformare un piccolo, anonimo angolo di Milano in un luogo quasi incantato, sottratto magicamente al senso di estraneità e di indifferenza che domina abitualmente la nostra percezione della città. Di sera, inoltre, gli stessi faretti che illuminano dal marciapiede le pareti del PAC divengono parte integrante dell’installazione e paiono voler scandire il susseguirsi delle diverse voci che dall’alto piovono dolcemente sui passanti. L’opera si trasforma cioè nel luogo stesso, attivandone la percezione, generando nuove esperienze.
Nel lavoro di Silvio Wolf il tema dell’abitare non si confronta dunque con lo spazio privato, domestico, ma con quello della città, intesa come luogo d’intersezione tra il sentire individuale e quello collettivo. Il suo intervento riallaccia infatti i legami tra le nostre e le altrui esistenze, puntando su una sorta di condivisione e riattivazione dello spazio urbano. La scommessa di questo autore è che lo spazio urbano, sordo e anonimo, che ci circonda, può essere rianimato, riattivato, se si riportano all’ascolto comune, all’orecchio di tutti, quegli strati di memoria collettiva che generalmente vengono negati, trascurati. L’installazione sonora di Silvio Wolf nasce infatti dal suo incontro con alcuni nuovi cittadini milanesi, provenienti dai più disparati Paesi del mondo. Ognuno di loro, esprimendosi nella lingua nativa, gli ha spiegato i motivi dell’abbandono del Paese d’origine, la storia del suo arrivo a Milano, le difficoltà dell’integrazione e la felicità nella conquista di un lavoro, di una casa. Tutti questi nuovi venuti, insomma, gli hanno raccontato, in sedici lingue diverse, le loro storie: quelle vicende che la città non ascolta, anche se di fatto, ormai, fanno parte integrante della sua stessa esistenza.
Così, dopo aver raccolto con pazienza e partecipazione, questo concerto di storie e di voci, Silvio Wolf lo ha poi ripresentato alla città stessa, sotto forma di un’opera che evoca e accetta la complessa realtà sociale e linguistica di Milano. Una simile operazione si ricollega quindi in modo rigoroso ad altri suoi precedenti interventi, realizzati sia in Italia che all’estero, dove egli ha sempre costruito il suo lavoro – che si trattasse di video, fotografie o installazioni – a partire dal luogo stesso in cui era stato invitato a operare. Nell’opera Ricreazione (Ex Scuola Umanitaria, Milano, 1998), ad esempio, Wolf diffonde, nel piano terra di una scuola ormai abbandonata, le voci di una comunità di bambini che giocano, come a voler riattivare la memoria di quel luogo ormai privato della loro presenza gioiosa. Nel centro della Città di Lussemburgo (Angeli del tempo, Città di Lussemburgo, 2001) ridona le voci di bambini giocosi e il canto degli uccelli a un giardino poco frequentato ed eccessivamente curato. Contemporaneamente posa, sulle aiuole e i vialetti di questo piccolo parco, decine di immagini tratte da antiche cartoline postali che ritraggono i giovanissimi membri della Famiglia Granducale. Rese leggermente indefinite dai riflessi luminosi che ne rendono le sembianze quasi immateriali e bruciate dalla luce del tempo, tali immagini di bianche figure infantili paiono riemergere dal passato, come se il vento della memoria fosse entrato nei cassetti segreti dei Granduchi per riportarle alla luce e rioffrirle alla città. In The Elsewhere (Royal Festival Hall, Londra, 1999) Wolf interviene nella Ballroom, dove spesso i bambini si divertono a giocare attratti dal suo ampio spazio vuoto: e qui moltiplica il vocio indistinto di decine di bambini che gridano concitati e si chiamano festosi. Quasi costituisse una sorta di doppia memoria – sedimentata al contempo dentro il luogo e nel profondo del nostro sentire – la voce carica di vitalità dei bambini agisce sugli spettatori creando nuove possibilità emozionali, sospese simultaneamente tra passato e presente, tra il qui e l’altrove. Un effetto di spaesamento e di rimemorazione a cui contribuisce anche la luce pura e atemporale che volutamente illumina in modo costante la sala, immergendola in una sorta di presente assoluto e sospeso. Simili a soglie instabilmente protese tra visibile e invisibile, tra presenza e assenza, questi interventi (così come quello che fa parte della mostra Less – Strategie dell’abitare) si offrono come generatori di possibilità percettive ed esperienziali, che creano nuove e più profonde relazioni di senso con l’ambiente in cui interagiscono.
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