Conversazione con Silvio Wolf

Giulia Vandelli

Milan 2013

Potresti spiegarmi le origini della tua pratica artistica, che identifichi nella fase degli “Stadi del Linguaggio” (1977-1987)? Qual è il filo conduttore che ti ha guidato in quegli anni e com’è nato il tuo interesse per il linguaggio visivo e mentale, per i “codici dell’esistenza”?

Ho intitolato la prima sezione del libro Light Specific “Stadi del Linguaggio” perché all’inizio della mia ricerca sentivo l’esigenza fondamentale di definire, verificare e rendere visibili non solo le “cose della Realtà” attraverso la loro apparenza sensibile, ma il Linguaggio stesso che mi permetteva di “scriverle” e ricostruire la loro immagine. A posteriori posso dire che quei lavori mi consentirono di definire il mio linguaggio e di renderlo visibile non dissociandolo dalla rappresentazione, come invece faceva molta arte concettuale del tempo. Mi sembrava, infatti, che l’artista concettuale “che usava il mezzo fotografico”, privilegiasse gli aspetti linguistici mortificandone l’azione e l’esperienza, che demandava “al fotografo”, concentrandosi piuttosto sul concetto e il processo, così che l’immagine aveva un valore relativo e talvolta strumentale.

Per me invece era come se il linguaggio – emanasse dalle – e – aderisse alle – superfici sensibili della Realtà e la Fotografia s’incaricasse di scriverlo mediante le immagini.

Mi fa impressione notare come nei primissimi lavori (Cambi d’Orizzonte, Argentiera e in tutto il ciclo Spazio Mentale fosse già presente il problema della Soglia, del quale non ero allora cosciente e che ho riconosciuto solo più tardi come uno dei temi centrali della mia ricerca. Individuavo istintivamente luoghi di passaggio nei quali il limite tra interno ed esterno, presenza e assenza, era reso visibile dalla superficie fotografica, perché la fotografia era (è!) essa stessa soglia attiva tra due mondi, che si definiscono reciprocamente attraverso il piano simbolico dell’immagine.

Un’altra questione che il mio lavoro ha indagato a fondo in quegli anni è stata certamente quella dello Spazio: di uno spazio fisico che corrisponde a uno spazio mentale. Avevo scritto:

….. la realtà data supporto di immagini mentali. E’ il pensiero che vede… (in Cambi d’Orizzonte)

….. essere la cornice…. la mente è il mezzo, la mente è il limite….. (in Argentiera)

….. Ciò che rappresento è immagine visibile del mio pensiero, del pensiero che vede e si riconosce in ciò che già…. (in Spazio Mentale)

Poi l’indagine si è indirizzata al Tempo, con i grandi polittici (primo dei quali Acqua, che indagava l’aspetto della cecità, delle morti istantanee iscritte nell’atto di fotografare).

Il tempo, cruciale dello scatto diventava un -altro- tempo, interno all’opera, (… un tempo nuovo la percorre internamente. In Alberi) riguardante più l’esperienza dell’osservatore che quella del fotografo (… Infinito Presente. In B.A.C.H.), o il tempo della simultaneità (in Grotta e Specchi), fino alla sintesi di Tempo, Spazio e Luce in Trasfigurazione dei SantiBelvedere e Praha. (questi ultimi due lavori presentati a Documenta nel 1987).

 

I luoghi e gli oggetti che hai scelto sono parte di una tua poetica dell’immaginazione, che decostruisci e ricomponi grazie alla fotografia, che sveli “rappresentando ciò che non sai”? Noto una forte presenza di elementi naturali – la luce, l’acqua, gli alberi: questa ricerca cosa ti ha svelato ai fini del tuo percorso successivo?

La scelta dei soggetti di quelle immagini è stata per certi versi una “coincidenza” (… coincidenze istantanee … In Alberi), casi fattisi necessità, luoghi del quotidiano divenuti simbolici e caricati si senso, così che la realtà data si trasformasse in codici, scritture, metafore, luoghi d’ascolto. Ho scritto nel 1982: “Il visibile sottende l’immaginabile. Immagini senza oggetti. Oggetti senza tempo” (in Alberi). Ho praticato una fotografia non confermativa fatta per svelare il non visibile attraverso il visibile, slegata dal tempo ferreo che l’ha determinata con lo scatto e non più necessitata dall’oggetto osservato, ma svincolata dalla sua presunta “oggettività”.

Mi piace molto la tua idea di “poetica dell’immaginazione, che decostruisci e ricomponi grazie alla fotografia, che sveli ‘rappresentando ciò che non sai”.

Sì, penso che alla fine la cosa fotografata sia importante, ma in fondo sia solo l’occasione; là le cose sono state viste, ma restano inimmaginabili senza tutta quell’attività autonoma, inconscia e imprevedibile del farsi immagine che fa emergere l’“altro” da sé.

 

C’è stato un momento fondamentale che ti ha portato a uscire dalla bidimensionalità delle immagini dal 1987 in poi? 

L’uscita dalla bidimensionalità dell’immagine è coincisa con il compimento di questo ciclo, che si concluse con Praha nel 1987, una delle 2 opere esposte a Kassel.  Pochi mesi dopo realizzavo La Verità (lavoro collaborativo) e soprattutto Grande Muro Occidentale, la mia prima installazione site-specific con la quale uscivo (finalmente) dagli obblighi rappresentativi dello spazio, trasformandolo inserendo elementi bidimensionali nello spazio tridimensionale, così che il luogo stesso fosse anche in “un altro luogo” e caricato di valore simbolico ed esistenziale, non più solo visivo e contemplativo.

Oggi mi accorgo di stare tornando all’immagine “pura”, condensando in essa il mio percorso nello spazio e includendo gli elementi dello spazio esterno attraverso la riflessione; interni attraverso la materialità della superficie; esperienziali, attraverso la presenza e lo sguardo dell’osservatore; temporali, attraverso la definizione del Present Perfect dell’opera; al Bianco e Nero che assomma, sintetizza e definisce tutti i colori e le declinazioni di luce, rendendo visibile e assieme invisibile.

 

Posso chiederti di più sullo Spazio Islamico, che hai conosciuto durante il tuo viaggio? Cosa ti ha colpito, più in dettaglio, e dove sei giunto partendo da esso?

Mi colpì molto la dimensione del vuoto, dell’assenza e dell’altrove che la cultura visiva e architettonica islamica rendono visibile ed esperibile.  La mia cultura mono-centrica e prospettica Occidentale (della quale la Fotografia è una delle massime espressioni) si proiettava in spazi e luoghi il cui fuoco non era né visibile, né centrale e le cui linee prive di angoli retti difficilmente erano circoscrivibile alle mie forme familiari quadrate o rettangolari.