Conversazione con Silvio Wolf
in "Problemi di Luogo", exhibition catalogue, Lorenzelli Arte, Milan 2000
Angela Madesani: L’interesse per la fotografia come mezzo dell’arte quando é iniziato e perché?
Silvio Wolf: Ho iniziato a lavorare con la fotografia nel ’77. La prima opera fu Cambi di Orizzonte. L’interesse é nato in antagonismo con la strada che mi ero disegnato, quella della professione di psicologo. Dopo avere deciso di interrompere questi studi ho scelto di studiare fotografia e a questo scopo sono andato a Londra.
A.M. Nel suo lavoro il mezzo fotografico é sempre stato utilizzato per una ricerca di carattere artistico?
S.W. Sin dall’inizio come sfida ho cercato l’accesso all’arte attraverso questo strumento espressivo, pensavo di non essere tagliato per il disegno e per la pittura. Gli unici accessi possibili erano per me attraverso la parola e l’immagine fotografica.
A.M. La parola comunque accompagna molti dei suoi lavori.
S.W. Mi sono accorto in questi anni di quanto fosse per me importante l’espressione verbale. Sin dagli inizi é stato spontaneo associare dei testi scritti alle immagini: si tratta, forse, di un riferimento a quell’area di tipo concettuale, la prima che ho conosciuto quando mi sono avvicinato al mondo degli artisti e delle gallerie .
A.M. Qual’é il suo debito nei confronti di Ugo Mulas?
S.W. Direi che é un patrimonio che molte persone della mia generazione hanno acquisito nel proprio sangue, più o meno consciamente. Avevo già avuto percezione dei suoi ultimi lavori prima della partenza per Londra. Mulas é riuscito a oggettivare il suo lavoro mettendone interamente in discussione il linguaggio.
A.M. E nei confronti di Franco Vimercati?
S.W. Ho conosciuto Vimercati in occasione della prima mostra a cui ho partecipato invitato da Luigi Ghirri, a cui fui segnalato da Franco Vaccari, nel ’79, Iconicittà al Padiglione d’Arte Contemporanea a Ferrara. Pur stimandolo molto non penso di essergli debitore: penso che non abbia influenzato la mia ricerca. Ci siamo trovati su un’onda molto vicina esprimendoci in maniere differenti. Vimercati ha trovato la sua luce all’interno del suo mondo, mentre io ho sempre avuto bisogno di confrontarmi con il mondo esterno, al punto che dopo dieci anni di ricerca sul linguaggio fotografico ho cominciato a creare lavori di tipo installativo. Non mi erano più sufficienti, infatti, ripresa e analisi: era diventato sostanziale creare un nuovo spazio, intenzionato dai miei segni.
A.M. M’interessa commentare insieme il suo testo Spazio mentale, pubblicato nel catalogo della sua prima personale nel 1981.
S.W. Vorrei prima di tutto sottolineare che sono ancora pienamente d’accordo con quanto ho scritto in quel testo. «Ciò che rappresento é immagine visibile del mio pensiero». Nel senso che mi é stato chiaro da subito che ciò che fotografavo era uno spazio di proiezione del mio io, non mi interessava la presa fotografica se non come supporto di immagini mentali. Questo non é stato un discorso programmatico, perché ho sempre concettualizzato a posteriori. Il primo atto del mio lavoro avviene sempre in maniera intuitiva, poi analiticamente cerco di ordinarlo. La mia attenzione per diversi anni s’é attestata su quelli che ho chiamato i luoghi di transizione, i luoghi di passaggio interno/esterno, le soglie. Come in Cambi d’Orizzonte e come nel secondo testo che ho scritto Essere la cornice. «Del mio pensiero che vede e si riconosce in ciò che già é». Ci sono, cioé, un tutto esterno e un tutto interno che si interfacciano sulla superficie della fotografia. Quello che m’affascina é questa assoluta bidimensionalità, l’immagine che si definisce come soglia, che si attua in un’esperienza di non visione, il buio e la luce assieme. «Coincidenze di posizione fisica e mentale. D’essere e spazio». Nella mia ricerca fotografica c’é la tematizzazione della non rappresentabilità, guardando le Icone di Luce siamo al problema della negazione dell’icona e della creazione dell’immagine attraverso la sua distruzione. Trovo che fotografare sia un gesto anche di estrema banalità se non viene caricato di senso. Mi interessa il valore simbolico che il linguaggio può assumere. «Luoghi di transizione. Interno ed esterno. Opposizione complementare d’antagonisti ubiqui. Svelo il mondo del non veduto. Rappresento ciò che non so». Era la quintessenza del mio pensiero di allora.
«Essere la cornice, appartenere allo spazio rassicurante che limita la visione e all’universo sensibile che lo comprende».In Argentiera la questione della cornice é stata essenziale. Il lavoro é un trittico formato da due immagini, poi da quattro, poi da una sequenza di sedici. Nelle prime due ho fotografato la cosa più banale del mondo: l’orizzonte, poi ho fatto un passo indietro e l’ho fotografato attraverso le cornici della casa, ma anche nelle prime immagini c’é una cornice, quella fotografica. é dunque tutto ruota attorno al problema della soglia.
A.M. Può parlarmi ancora di Cambi di orizzonte?
S.W. Ho fotografato due volte. Era normale che fotografassi delle cose in più modi, più volte, proprio perché con la fotografia si tentano normalmente diverse strade: per me la cosa importante é stata che le due immagini fossero compresenti e venissero presentate simultaneamente; ho sentito per la prima volta l’esigenza di definire il lavoro come interazione. Cambiando posizione nello spazio si é definita una nuova visione. é come se il fotografo avesse scoperto l’artista. Ho cioé intuito questo nuovo orizzonte. Da una parte l’immagine é in potenza e dall’altra é in atto ma ciascuna immagine é importante proprio perché esiste l’altra: é il rapporto di interazione tra le due che definisce il processo. La realtà é rappresentata a supporto di immagini mentali: «E’ il pensiero che vede». Le due immagini vengono presentate contemporaneamente, l’una rappresenta l’esistenza dell’altra. Curiosamente il primo soggetto nel quale ho riconosciuto questo atteggiamento mentale sono state Finestre destituite di ogni valore d’uso. Poi é venuto il lavoro delle cabine che non ho mai esposto in pubblico e dove ho ripreso la stessa posizione rispetto a realtà differenti. Erano tre cabine antivento in Inghilterra, e sembra che io non abbia fatto altro che mutare il colore dell’oggetto, invece ho cambiato la mia posizione nei confronti del reale. Qui non c’é nessuna elaborazione, ne é la testimonianza la posizione leggermente diversa della mia ombra in ciascuna immagine. In queste fotografie c’é il problema che sentivo molto forte in quegli anni: di fotografare e cercare di capire al tempo stesso cosa stessi facendo mentre fotografavo. Quindi ho fatto esperienze estremamente processuali, dove fotografavo il mondo e contemporaneamente il luogo dove mi trovavo. Ho fotografato i miei piedi mentre camminavo, ho fatto un taglio nella sfera dell’universo dai piedi allo zenit. Di quegli anni é anche il lavoro che esposi a Iconicittà, si tratta di un lavoro che oggi giudico estremamente masturbatorio sulla fotografia, ma dove però c’é un punto che trovo ancor’oggi fondamentale. Avevo un manichino in studio, ho cominciato a fotografarlo con la Polaroid dividendolo in pezzi, poi ponendogli sopra l’immagine di ciascun pezzo. Poi l’ho ricostruito in modo mnemonico senza guardare esattamente i punti di registro, la sinistra, la destra.
A.M. Fa venire in mente David Hochney.
S.W. In un certo senso si. Poi ho dato vita a un processo lunghissimo e noioso: l’ho rifotografato allontanandomene gradualmente. Il punto fondamentale della questione s’é rivelato però nello stadio finale del lavoro quando ho deciso, fatta una nuova prima fotografia del manichino, di rifotografare questa e non più il manichino. Poi ho rifotografato la seconda immagine, poi la terza, e cos“ via. Allora mi si é reso evidente che l’immagine dell’immagine genera la propria morte. Ogni volta che si riproduce l’immagine fotografica rifotografandola, si verifica una perdita d’informazione e allo stadio ultimo c’é la sua distruzione, il nero, l’assenza di luce. «Nel momento in cui la prassi fotografica verifica i propri meccanismi rappresentandoli, nega quelli assunti come propri connotati tecnici»: voglio dire cioé che quello che ha scritto Benjamin é vero e non é vero. Il mezzo ha anche un grado di autonomia interno non governabile.
C’é un piccolo scarto che non si può controllare, quello che Franco Vaccari chiama l’inconscio tecnologico. C’é dunque un elemento sfuggente nel linguaggio e nella prassi fotografica.
A.M. Che ruolo ha avuto per lei la memoria?
S.W. Allora la questione della memoria non era cos“ importante come lo é adesso. Mi occupavo, piuttosto, di problemi legati, da un lato, alla percezione, dall’altro, al problema della soglia e della proiezione dell’immagine. La memoria é diventata una questione centrale più avanti nel tempo, quando l’ho collegata alla questione dello spazio e soprattutto all’immaterialità. Per moltissimi anni ho fatto le fotografie per poi leggerle solo molto più tardi. E’ un metodo che mi davo per poter guardare le immagini senza la durezza del ricordo, della circostanza dello scatto, perché volevo che il mio corpo avesse già metabolizzato il viaggio, l’esperienza. Il ricordo non doveva influenzare la mia visione delle immagini perché era come se mi confrontassi con il lavoro di un altro, cioé di quel Silvio Wolf che aveva fatto quell’operazione e che ora, a posteriori, andavo ad analizzare.
A.M. In Camera chiara Ando Goliardi riporta questa affermazione: «Lo specifico fotografico non attua le leggi che lo definiscono».
S.W. E’ proprio una citazione del mio testo. Non per nulla quel lavoro si intitola Feticcio della comunicazione.
A.M. Quindi la comunicazione era già da allora un problema per lei?
S.W. Certamente, proprio perché usavo la fotografia ma non avevo niente da raccontare con quelle fotografie.
A.M. Sin dall’inizio del suo lavoro si é occupato dello spazio simbolico, dell’architettura in rapporto con il tempo.
S.W. Non c’é stata una vera intenzione in questo. Inoltre la figura umana non é mai stata rilevante nei miei lavori fotografici, quanto piuttosto lo é stato lo spazio. Il primo vero momento in cui la figura umana s’é rivelata centrale per il lavoro é stato con la mostra Luci Bianche alle Stelline, ma qui si sta parlando degli anni Novanta. E comunque di un lavoro basato sull’assenza dei soggetti e sulla memoria dello spazio installativo.