Attorno all’invisibile. Del lavoro recente di Silvio Wolf

Francesco Tedeschi

in Titolo N.61, Benucci Editore, Perugia 2009

Da tempo le realizzazioni di Silvio Wolf paiono negare la possibilità, o l’esistenza stessa dell’immagine. Eppure la sua ricerca si fonda sull’origine del visibile, in un passaggio sensibile, oltre che mediato intellettualmente, fra le apparenze e la realtà, di un’immagine che è comunque autonoma rispetto al referente. In questo processo, che trova forma in opere fondate sul valore assoluto della relazione fra luce e buio, o sul ricorso al valore segnico per eccellenza, quello della parola, la sua recente produzione – presentata nei mesi scorsi in una mostra personale da Nicoletta Rusconi a Milano – intreccia una particolare trama fra le nozioni di temporalità e di visibilità.

L’assunto di partenza di questa serie di lavori è che viviamo in una condizione in cui il visibile è esploso, ha avvolto ogni forma dell’esperienza sensibile e della comunicazione. La diffusione e la moltiplicazione delle immagini hanno generato una saturazione, che ha conseguenze sul nostro modo di rapportarci agli strumenti del comunicare, ma anche alla realtà quotidiana. Si è passati nel giro di alcuni anni dalla affermazione dell’“iconosfera”, come condizione avvolgente e globalizzante, a una “iconocrazia”, che pare ancora determinare il giudizio sulle cose e soprattutto definisce il grado di subordinazione delle qualità intellettive rispetto a parametri di referenzialità esteriore.

Rispetto a questa forma di sollecitazione, proprio il settore che dell’immagine parrebbe, per statuto linguistico, maggiormente necessitare, come la fotografia, ricorre a nuove soluzioni, che non sono da intendersi come gratuite e sterili indagini sulle potenzialità del mezzo e sulla sua capacità di sperimentazione. Rispetto a qualsiasi forma di inconscio tecnologico, l’operazione attivata da Wolf con le sue realizzazioni è piuttosto di natura originaria ed elementare. Si tratta di verificare, cioè, cosa resta delle forme della realtà quando ci poniamo di fronte alle cose non in forma eterodiretta, pronti solo a ricevere, ma con un’attenzione di natura più profonda, che verrebbe da dire interiore, per quanto il termine si presti a interpretazioni forse fuorvianti o apparentemente eccessive.

Non è eccessivo però pensare che in fotografia, o nel “fotografico”, si possa generare una rappresentazione originale dell’invisibile attraverso forme concrete. È un processo che si trova al centro dell’attenzione di Wolf da tempo, e che ha trovato nuova e ulteriore possibilità di verifica in alcuni dei suoi lavori recenti, a cominciare da Meditations, un’installazione all’interno della quale chi sosta si trova circondato per tre lati da lastre monocrome nere, ottenute mediante registrazioni di luce omogenea, nelle quali specchiarsi, accompagnati dal rumore di un respiro che cade dall’alto proprio al centro dello spazio creato. Quello che Wolf propone è un confronto con il sé, con lo stare in una condizione di immobilità, spingendo a guardare se stessi attraverso un’immagine che è negazione dell’immagine, pur provenendo dalla luce che rivela l’immagine, nella nostra percezione abituale. Il respiro che ascoltiamo ci rimanda ad altro, ci fa sentire una presenza invisibile, che ci piove da sopra, come una mano che accompagna o come una presenza inquietante.

Un altro tema che Wolf ha spesso accarezzato nei suoi lavori, quello della soglia, del luogo di passaggio o di transizione, che ci introduce in una realtà altra rispetto al luogo sensibile nel quale siamo o che ci viene offerto dalla visione, ritorna in alcuni altri lavori, come la nicchia vuota fotografata come spazio dell’assenza e divenuta una forma architettonica muta e geometrica, ma che è soprattutto, un’immagine astratta ripresa dal “vero”, sulla falsariga di altre composizioni in cui Wolf ha reso in immagini fotografiche presenze fisiche che diventano figure autonome. In questo caso l’immagine esiste, può offrire un rimando diretto o molteplici rimandi, e proprio per questo richiede un “completamento” che non è di natura emotiva o riempitiva, ma un ulteriore segno della capacità di indagare, attraverso l’epidermide registrata con il procedimento fotografico, la sostanza interiore delle cose.

Nel suo procedere attraverso l’indagine sui confini del visibile, che trova ulteriori conferme e possibilità di espansione non in senso orizzontale, ma verticale – non si sollecita una fame bulimica di immagini, ma si suggerisce la possibilità di fermarsi al dato di uno svuotamento di forme che è riempimento di senso – Wolf ha tracciato una parabola che coinvolge le potenzialità del mezzo con le particolari soluzioni e sostanze offerte dall’esperienza delle forme “ambigue” in cui si manifestano le sue “rappresentazioni”. Il ribaltamento tra il visibile e l’invisibile, spesso prodotto naturalmente mediante l’attenzione per il controluce nelle sue opere, derivanti da osservazioni concrete e tradotte nelle immagini che il mezzo fotografico “vede”, produce forti contrasti, motivi di separazione, nei quali fare esperienza, come ha detto in qualche occasione, della sostanza temporale. Il tempo diventa l’essenza del tramite, del momento di separazione fra un qui e un altrove, fra la luce e il buio, fra il presente e la memoria.

La densità di tali stati di sospensione alimentati dall’osservazione si manifesta in altri suoi lavori recenti, come Aperture, dove il “rispecchiamento” del sé avviene nella superficie specchiante in alluminio di un controluce prodotto da un luogo accecato, collocato al di là di una cortina improvvisamente apertasi. Una doppia forma di azzeramento conduce in questo caso alla sostituzione della nitidezza dell’immagine, comprensibile in via intuitiva, con l’accostamento tra l’invisibilità della tenda divenuta una superficie omogenea nera, e l’invisibilità della luce, riflessa in uno specchio sull’ambiente in cui ci troviamo a guardare questa immagine in negativo. Il carattere formale di tale figura verticale raggiunge la sua sintesi ulteriore nelle separazioni orizzontali che, rese anch’esse nella dialettica fra il nero e l’alluminio, portano a pensare alla stagione estrema di Rothko, la sua più astratta e spirituale. Per quanto Wolf non intenda ricondurre a un piano specificamente formale il suo intervento, l’accostamento ad alcuni aspetti dell’opera del grande artista americano non si gioca sul piano del pittorico, come è stato avanzato per altri suoi “orizzonti”, ottenuti dall’ingrandimento di scarti di pellicola impressionati direttamente dalla luce che inavvertitamente li ha colpiti, ma per la sostanza di azzeramento dell’espressione e dell’immagine che in quelle opere si manifesta e qui riverbera inevitabilmente. Lo scopo che Wolf si è prefisso, come dichiara nel testo che accompagna gli ultimi suoi lavori, è provocare un ribaltamento dall’attenzione per l’immagine che appare a quella per la posizione del soggetto che guarda quella “soglia” interrogandola, immediatamente ponendosi di fronte a se stesso. Quello che ha certamente raggiunto è il desiderio di un’immersione nell’invisibile della sostanza delle cose, che si fa tempo e spazio interiore.

Si pensi a Dittico Scala Zero, del 2001, alla serie Skylight, del 2002, o anche alla grande installazione I Nomi del Tempo, gigantografia di sei metri per dieci, esposta alla Biennale di Venezia di quest’anno, originata da una fotografia di un lungo corridoio ripreso in prospettiva allungata e in controluce. Le immagini di esse, oltre che nei cataloghi delle mostre personali e collettive, per cui cfr. Silvio Wolf. Le Due Porte, Galleria Fotografia Italiana, Milano, 7 maggio – 14 giugno 2003, e Silvio Wolf. Scala Zero, cat. della mostra, Fotografia Italiana, Milano, 18 novembre 2004 – 22 gennaio 2005, sono riportate nel documentatissimo sito dell’artista: silviowolf.com