All Art Has Been Contemporary
2001-2004
All art has been contemporary è un opera di Maurizio Nannucci: una scrittura di luce. Essa ha ispirato la mia riflessione attorno alla domanda rivoltami da Roberta Valtorta: “E’ contemporanea la fotografia?”
Forse Nannucci ha già risposto alla domanda attraverso questo truismo, purché si assuma la Fotografia in quanto pratica artistica: questa è secondo me la questione centrale da cui ogni altra risposta deriva.
Dunque la mia prima risposta è: sì, la Fotografia è sempre stata contemporanea.
1) Forse gli unici ad essersene accorti con tanto ritardo sono stati proprio i fotografi, una comunità in perenne equilibrio tra linguaggi altrui, ma spesso poco cosciente dei propri, pervasa da un senso d’inferiorità e d’inadeguatezza nei confronti di linguaggi considerati talvolta più nobili del loro. Questa comunità è stata continuamente scavalcata da altre e più agguerrite tribù: i chimici, che hanno inventato la fotografia, i fisici, che l’hanno sviluppata per verificare le proprie intuizioni del mondo, gli informatici, che l’hanno smaterializzata e trasformata in numeri, i semiologi, che l’hanno utilizzata per riflettere sui segni e sui loro referenti, e infine la più radicale ed agguerrita, quella degli artisti, grandi padri e onnivori consumatori di linguaggi, che l’hanno contaminata, trasgredita, sovvertita e spesso abbandonata senza troppi problemi.
2) Ecco una seconda questione importante:
Perché l’arte e la Fotografia per così tanto tempo non si sono identificate? Perché la Fotografia così a lungo ha guardato solo a se stessa pensandosi meno nobile e meno fiera dell’Arte, quasi ne fosse una sua lontana parente? Perché s’è dunque scavata una nicchia d’autoreferenzialità? Cosa le è mancato?
Da questo stato di subalternità e separatezza deriva un’ulteriore questione importante:
3) Quando diciamo Fotografia, quale Fotografia nominiamo?
La fotografia s’è rivolta sin dalla sua nascita al Reale: l’ha registrato, studiato, documentato, rappresentato, copiato, testimoniato, denunciato, ricordato, negato, simulato, ridefinito, simbolizzato e messo in codice fino a identificarsi e confondersi a tal punto con esso da divenirne il sinonimo per antonomasia, la sacerdotessa d’ogni sua espressione e rappresentazione sensibile, s’è fatta Icona del Reale.
Non esiste dunque la Fotografia, ma esistono molte Fotografie. Essa è ormai ricca di generi, di modi e di tradizioni, d’identità e di stili. La Fotografia non può più essere affrontata – in toto – come se si ripartisse da zero ogni volta che la si nomina, come se fosse un’entità unica, a maggior ragione oggi che sono in corso cambiamenti epocali del suo linguaggio e dei suoi statuti, della sua tecnica e della sua identità, del suo ruolo sociale e del suo mercato.
4) Questi cambiamenti vanno di pari passo con gli enormi mutamenti oggi in atto nel mondo dell’informazione e della comunicazione e più in generale nel modo stesso di assegnare senso alle manifestazioni del Reale. E’ un processo d’enormi proporzioni, paragonabile alla crisi che l’apparire della Fotografia produsse nell’ancor solido mondo della pittura. Allora furono la figura professionale del pittore ed il suo ruolo sociale ad entrare profondamente in crisi; fu una crisi di valori, di prassi e di statuti che si ripercosse non solo sul lavoro dei pittori e sugli oggetti del linguaggio ma, cosa assai più importante, sulla loro stessa messa in codice della realtà. Fu una crisi lunga e complessa che produsse una feconda esperienza di morte, foriera d’un grande rinnovamento che costrinse gli artisti ad interrogarsi sulla propria visione della realtà, ricercandone e in fine trovandone di radicalmente nuove. Paradossalmente fu proprio la verosimiglianza fotografica, cioè la straordinaria e per quei tempi immediata aderenza dell’immagine fotografica al suo referente mondano, fu la scrittura stessa della Fotografia a sgravare la pittura dall’ingombrante fardello che si portava appresso da secoli: il cordone ombelicale della dura rappresentazione del reale, rescisso il quale si dischiuse quell’immenso orizzonte che condusse alla visione cosiddetta astratta della realtà.
5) A quasi due secoli dalla sua nascita, la Fotografia si trova oggi in una situazione analoga a quella descritta. Incalzata e scavalcata, esautorata di ruoli e di funzioni, la grande madre di tutti i mezzi e processi non manuali di produzione dell’immagine sta sperimentando anch’essa una profonda e feconda esperienza di morte. I processi digitali, l’immagine elettronica e di sintesi, la multi-medialità e la realtà virtuale, col loro potere di calcolare e riscrivere l’immagine secondo ordini e strategie infinitamente arbitrarie e complesse, stanno dissolvendo -nei fatti- gli statuti storici della Fotografia, quelli che essa fin dalla sua nascita ha assunto come propri ed ai quali si è affidata per affermare la propria esistenza e la propria verità. Intendo i codici della fotografia analogica, quelli propri del suo DNA linguistico:
– La certificazione della realtà.
Che ciò che vedo nell’immagine sia anche esistito, che sia anche stato. Che al presente della rappresentazione corrisponda necessariamente un passato dell’esperienza. Che la cosa descritta sia accaduta.
– L’unità di spazio e di tempo.
Che il fotografo e la cosa fotografata si siano trovati nello stesso luogo nello stesso momento, l’uno in presenza dell’altra. Che le cose si siano trovate là dove sono state fotografate e che sia quindi esistito un tempo in cui gli eventi raffigurati siano anche accaduti: un tempo condiviso dal fotografo e dal suo soggetto.
– L’esperienza.
Che io abbia visto, vissuto, scelto e fotografato: abbia fatto esperienza della realtà rappresentata. Che la fotografia parli per bocca del fotografo: che sia segno e testimonianza assieme, indichi l’Io dell’autore.
Simbolicamente: che ad un qui presente corrisponda un altrove passato.
6) Ecco dunque una prima risposta alla nostra interrogazione iniziale: la Fotografia contemporanea è diventata molto brava a mostrarci ciò che non è ancora accaduto e ciò che potrebbe accadere, a darci evidenza del futuro e del possibile, a mostrarci luoghi senza altrove e presenti senza più un passato, mentre sta perdendo il suo potere storico sulla rappresentazione consolidata dello spazio e del tempo.
L’essenza irriducibile del linguaggio fotografico non sembra più essere il noema Barthiano è stato, ma piuttosto il come se espresso dalle più avanzate ricerche linguistiche. Ci confrontiamo oggi con immagini indifferenti, potenzialmente in grado di confermare o di smentire, vere e false assieme. Arbitro di questa scelta non è più né il soggetto delle immagini, né l’etica di chi le crea, ma piuttosto il pensiero e l’atteggiamento di chi vi si confronta, e soprattutto l’ambiente in cui sono fruite.
7) I processi socialmente significativi, ciò che è veramente in grado di generare senso, avvengono sempre più spesso in luoghi non più visibili, né rappresentabili fotograficamente: in luoghi non più raggiunti dalla luce. Sappiamo che la fotografia ha sempre avuto bisogno di luce per materializzarsi e a sua volta la luce di superfici sensibili sulle quali riflettersi prima di raggiungere la nostra retina o di penetrare all’interno del dispositivo ottico, fisico e chimico per trasformarsi in segni fotografici. I processi comunicativi e decisionali, lo spostamento d’informazioni e dati, la produzione di senso avvengono ora all’interno di reti, circuiti e sistemi non più necessariamente visibili all’occhio umano: come potrà la Fotografia rappresentare luoghi e processi non più visibili? Ciò che noi vediamo è spesso solo l’output, la fine d’un processo, la sua ricaduta materiale, la crisalide da cui l’insetto perfetto è già volato via: del bruco ci resta solo la memoria, della crisalide, la fotografia, non sappiamo più cosa farcene. L’insetto perfetto vola libero lungo le fibre ottiche nell’infinitamente lontano o nell’infinitamente piccolo, a distanze siderali dalla terra o negli irrappresentabili spazi delle particelle subatomiche; vola ovunque nella rete delle reti, là dove risiedono e sono accessibili un numero virtualmente infinito d’immagini del mondo. Sono immagini che rappresentano tutto e il contrario di tutto, mediante le quali possiamo ricombinare infiniti racconti, narrare storie d’ogni genere, per qualsiasi cultura ed ogni finalità: é un arcipelago di linguaggi che ci consente d’essere testimoni assenti, ubiqui e simultanei.
8) Siamo ormai giunti di fronte alle immagini d’uno specchio del mondo in grado di ricombinare i frammenti delle sue infinite immagini riflesse e di restituirceli nella forma di pure Icone della Luce e del Tempo. Siamo i fotografi d’una realtà che è potenzialmente già immagine e possiamo ricodificare ciò che è già in codice senza confrontarci con la durezza del reale e in fondo senza doverne più necessariamente far parte: la realtà delle immagini è già infinitamente ricca e tutto -o quasi- ci sembra possibile.
9) Se possiamo partire da realtà di seconda, di terza, d’ennesima generazione, cosa ce ne faremo più delle nostre vecchie o contemporanee macchine fotografiche? L’antico gesto d’impugnarle assomiglia sempre più a quello del brandire una sorta di clava del XX Secolo, un oggetto anacronistico, fuori misura ed inappropriato a rappresentare un presente che s’è fatto cangiante, discontinuo, molteplice e frantumato in infiniti presenti non più riducibili all’esperienza del singolo individuo in un singolo luogo, né tanto meno a quella d’un singolo sistema occhio-mano-corpo.
10) Ecco allora una nuova risposta possibile alla domanda iniziale: la Fotografia contemporanea sta diventando campione nel mostrarci il banale, il quotidiano, l’indifferente. Il fotografo sembra più a suo agio nell’impugnare una leggera retina con la quale rivolgersi a delicate farfalle che assumono via via le forme di lievi rappresentazioni introspettive, mutamenti di stati d’animo, rapporti interpersonali, incontri minimi, minimi scambi, scene della vita quotidiana: di quel vissuto che appartiene all’immateriale sfera della soggettività.
Così come la rete gettata dal pescatore è in grado di riportare a galla ciò che scorre nel fiume in cui è immersa, così la nostra rete fotografica può cogliere randomaticamente nel grande fiume del tempo. Tutto il pescato è ridotto ad equivalenti presenze delle quali nessuna di per sé è più significativa: si tratta d’un fiume indifferenziato di senso perché proprio il fotografo, l’attore del gesto, il pescatore del fiume del tempo pare come smarrito ed incapace di dar senso a ciò che vede e raccoglie.
11) Il fotografo non riesce più ad essere “là dove le cose accadono”, sulla “prima linea” del mondo, né a denunciare né a criticare, né ad offrire alla comunicazione il senso del reale: a nominare il presente. E’ come se al fotografo stesse oggi sfuggendo di mano il tempo: il cardine del suo linguaggio, paradossalmente proprio ciò di cui è stato per anni l’incontrastato maestro: l’artefice dell’infinito presente.
12) In assenza d’un pensiero forte e capace d’identificare il reale la Fotografia contemporanea si concentra su modelli della realtà. Ci mostra scene, situazioni, eventi che sembrano reali o verosimili. I fotografi narrano storie di cui sono gli scrittori, i registi e talvolta gli interpreti. Se la realtà sfugge di mano e si rende invisibile, ecco che il fotografo ricrea la propria attraverso le particelle d’un mondo dove tutto è sotto controllo, la messa in codice è pianificabile come nel gabinetto d’uno scienziato, la realtà fa ciò che lui le detta, perché assomiglia alle sue aspettative, la riconosce, è il modello delle sue nostalgie. Dopo aver preteso per quasi due secoli di poterle fare da padre semplicemente donandole il suo nome, oggi il fotografo comincia ad esserne anche un po’ madre: la procrea, la alimenta e la cresce, la protegge e la ospita dentro la sua casa, il suo studio e il suo mondo creando la sua icona nel dominio del possibile.
13) Altri fotografi hanno gestito il proprio smarrimento di senso del mondo visibile cercando di catalogare in modo oggettivo la realtà che sta scomparendo. E’ quella Fotografia che ha fatto dell’approccio duro e frontale la mappa e il testamento assieme della realtà industriale e sociale del XX secolo, concentrandosi s’una pelle del mondo che è divenuta la dura crosta della realtà, fotografando le cose prima della loro scomparsa, come in una catalogazione a futura memoria.
14) Una delle più grandi palestre della contemporaneità nella quale i fotografi hanno praticato i propri esercizi di stile e coltivato la crescente nostalgia del reale, è quella del paesaggio. Ormai incapaci di ritrovare un centro al suo interno l’hanno trasformato in una sorta di Disneyland dello sguardo, forzandolo a diventare un quadro fotografico colorato, sfocato e modificato a loro piacimento, nuova finestra di contemplazione d’una realtà indifferenziata e distante. Meglio dunque concentrare lo sguardo ed il proprio sentire sulle fotografie stesse, rese nuovi oggetti del mondo: foto belle, suadenti, colorate, inclinate, sfocate, basculate, riflesse, invertite, grandi, enormi, monumentali. Le nuove icone possono esistere senza fardelli di tipo morale nei confronti d’una realtà muta ed assente.
15) La fotografia analogica si scopre contemporanea proprio là dove appare superata e per certi versi obsoleta: nel confronto con l’immagine digitale. E’ importante ricordare che la Fotografia è la grande madre di tutte le tecniche non manuali di produzione dell’immagine e notare anche che l’estetica di gran parte delle immagini digitali finora prodotte è ancora ampiamente di derivazione fotografica (prospettiva, posizionamento della luce, riflessi, punto di vista, natura delle superfici). Particolarmente le immagini sintetiche, quelle prodotte all’interno del mezzo mediante computo numerico e modellizzazione, cioè che ci consentono di vedere immagini d’oggetti reali senza che le loro superfici siano state investite dalla luce del sole, pagano pegno alla Fotografia quando devono darsi status, dignità e valore. Per essere accreditate alla Corte del Reale affinché ad esse si creda, hanno bisogno di sembrare fotografie, di mimare la speciale messa in codice della fotografia. Paradossalmente i mezzi in grado di spingere al di là i limiti d’una visione consolidata, stereotipata e ormai sospetta della realtà, proprio gli strumenti del nuovo si rifanno ai valori formali della Fotografia tradizionale per essere suffragati dal più ampio consenso. Sembra dunque ripetersi il destino dei fotografi dell’800, che ricercavano nell’estetica della pittura quella legittimazione che la scarsa tradizione e l’acerbo linguaggio d’allora non potevano offrire.
Infine ancora tre notazioni attorno a questioni che rendono la Fotografia quanto mai “contemporanea”:
A) Il mercato.
Tanto più la fotografia si approssima alla sua morte come oggetto socialmente utile, atto a fornire e trasmettere informazioni e a certificate dati della realtà, tanto più perde terreno nelle strategie di comunicazione, nell’uso “duro e diretto”, tanto più acquista valore come pura immagine, nuova icona autoreferenziale. Diventa oggetto di contemplazione, feticcio da collezione: opera per il mercato dell’arte.
I nuovi media aiutano oggi la Fotografia ad assomigliare sempre di più alla pittura, nel senso che la Fotografia può raffigurare qualsiasi cosa e in qualsiasi modo essa creda giusto farlo, liberata dagli obblighi cui la sua sudditanza psicologica, prima ancora che linguistica, l’avevano costretta. I mezzi elettronici e multimediali stanno riscattando la Fotografia da molte sue servitù storiche, spingendola velocemente verso la propria morte sociale, ma offrendole finalmente accesso alle arti belle.
B) Il Museo.
Due interrogazioni: costituire oggi un Museo della Fotografia, pur rappresentando di per sé un’iniziativa utile e necessaria, non rischia però di dar forma ad una nicchia disciplinare, ad un ghetto del linguaggio?
Attribuendo la propria identità ad un unico linguaggio, il Museo non nega forse la grande ricchezza presente nell’Arte contemporanea anche grazie all’uso d’una pluralità di linguaggi finalmente liberi da gerarchie?
C) La scuola
Cosa si prefiggono d’insegnare oggi le scuole di fotografia in una situazione così complessa di transizione e di cambiamento? Quale figura professionale sanno indicare come modello? Quale nuova idea di Fotografia sono in grado di proporre a studenti che si avvicinano allo studio di questa ormai storica disciplina con un’idea spesso datata e mutuata più dalla mitologia che dalla sua realtà attuale?
Peter, il fotografo di successo ritratto da Michelangelo Antonioni in Blow up 37 anni fa viveva già dentro di sé, esistenziale, la crisi del soggetto-fotografo e la fine dell’ottimistico potere di lettura del reale attraverso il suo principesco strumento. Egli crede di vedere, pensa di aver visto; attraverso le sue immagini si costruisce storie, certezze e modelli cui credere ma che la realtà s’incarica di smentire, oppure semplicemente non confermare.
La crisi del suo rapporto con il mezzo ed il linguaggio di cui è pubblicamente un maestro, coincidono con quelle della sua identità personale profonda. Egli finisce per identificarsi, far parte e credere solo ad una realtà che si è trasformata in finzione e rappresentazione, di cui lui diventa attore e spettatore assieme: Peter non ha il problema d’informare, né quello di comunicare, ma forse solo quello di essere. Il film sospende il giudizio, caricando di valore simbolico l’immagine come solo l’artista può fare: nel mistero del tempo presente. Oggi, finalmente, la Fotografia può trovare i modi per dirsi contemporanea.
L’ultima cosa che importa in ciò che dice il poeta, è che ciò che dice sia vero. (G.Galilei)